[di Francesca Sivo]
«Sei Daria. Sei D’aria. L’apostrofo ti trasforma in sostanza lieve e impalpabile. Nel tuo nome un destino che non ti fa creatura terrena, perché mai hai conosciuto la forza di gravità che ti chiama alla terra». Comincia così, con un raffinato gioco di parole, anticipato già dal titolo, il romanzo d’esordio di Ada D’Adamo, vincitore postumo del Premio Strega 2023: Come d’aria [pubblicato nella collana Scatti di Elliot Edizioni, n.d.r.]. Un gioco di parole che, come un fuso, sembra riavvolgere in un attimo tutto il filo del racconto di una vita sul crinale della poetica del nomen/omen tanto cara agli antichi, e torna a riproporsi uguale e diverso nel finale: in una sorta di Ringkomposition, che attribuisce nuova forma e nuova sostanza al concetto di identità come attraversamento ed “incorporazione” dell’altro da sé, concetto peraltro nodale nella semantica della danza e nell’ambito delle ricerche e degli studi condotti su questa disciplina così importante nell’universo vitale e letterario dell’autrice*. «Finirò col disciogliermi in te? Sono Ada. Sarò D’aria»: sono queste le ultime parole con cui si conclude la lettera-testamento che la scrittrice abruzzese indirizza alla sua unica figlia, Daria, consegnando insieme a quelle pagine, a lei che non parla e non vede, anche il destino del proprio corpo, della propria anima e del proprio nome, e prospettando per lei e per sé stessa un futuro trasformativo, fragile ma possibile, nella ricerca di un equilibrio tra la gioia di una addizione e la paura di una sottrazione e fino alla completa fusione di nomi e di corpi.
Tutto, nel lungo racconto che la stessa D’Adamo amava definire piuttosto come un memoir, passa attraverso i nomi e i corpi. Il corpo di Daria, la figlia adolescente, il cui destino è segnato, a partire dalla nascita, da una mancata diagnosi ed è impietosamente racchiuso in un solo vocabolo, che fa tremare i polsi al primo ascolto, perché troppo difficile da intendere, memorizzare, pronunciare: oloprosencefalia. E il corpo di Ada, la madre, che alla soglia dei cinquant’anni scopre di essersi ammalata: tumore metastatico della mammella, al quarto stadio, si legge sul referto inequivocabile della Tac. La drammatica scoperta della malattia rappresenta dunque, per Ada, l’occasione per rivolgersi a Daria, l’amata figlia affetta da una grave malformazione cerebrale congenita, che l’ha resa invalida al cento per cento e perciò bisognosa di cure incessanti, e talvolta estenuanti, e di un approccio specialistico e multidisciplinare; e rappresenta l’occasione per raccontarle, dal principio, la loro storia che, pagina dopo pagina, si dipana agli occhi dei lettori con la stessa grazia con cui, in una vecchia fotografia reperita in rete, si scorge l’autrice, allora giovane danzatrice, intenta a svolgere i nastri in raso rosa delle scarpette da punta che stringe tra le mani.
Mentre scrive, Ada riflette sulle beffe della natura: proprio lei che, danzando, per anni aveva «ricercato la grazia del gesto, la precisione del dettaglio, il gioco delle proporzioni che si armonizzano nell’insieme»; proprio lei, da sempre così «abituata a tenere sotto controllo la posizione di un mignolo», aveva generato una figlia disabile, dotata di «un corpo completamente fuori controllo, con scatti epilettici, una schiena e una testa incapaci di stare dritte» (p. 45). Il racconto, allora, si fa intreccio di parole che, come fossero passi di danza, a ritmi cadenzati attraversano il tempo: parole che si muovono lente e poi veloci e poi di nuovo lente, a cercare e a ricalibrare i gesti le movenze i respiri, tra un passato che avrebbe potuto avere risvolti diversi, se solo la possibilità di scelta non fosse stata negata, e un presente carico di fatiche e di sofferenze quotidiane, di rabbia e di segreti, sì, ma pure di gioie inattese e sprazzi di luce e commovente tenerezza. E tra il passato e il presente c’è il futuro, su cui alternativamente lo sguardo incerto ma non privo di speranza di Ada non smette di posarsi.
Il racconto è un intreccio di parole in cui tutto, si diceva, passa attraverso i corpi come accade nella danza, arte cui l’autrice ha consacrato gran parte della sua vita; corpi in cui, accanto alle paure, alla stanchezza, al dolore, ella ha potuto trovare rifugio e spazio per sperimentare altresì la forza dell’amore: «Io sono il mio corpo, che accumula segni, ferite, cicatrici. Corpo che è il mio sigillo, testo che parla di me. […] Il corpo mi ispira, mi guida, mi insegna. In lui – qualunque corpo sia – devo credere» (p. 86). Un corpo, il suo, verso cui – com’è naturale che sia – Ada D’Adamo non può non provare sentimenti contrastanti: «Sento che il mio corpo mi ha tradito e ce l’ho con lui. La sua fragilità è ormai parte di me e ogni volta che si manifesta, fosse anche solo con un piccolo segnale, il bruciore di quel tradimento si ravviva, come brace che torna ad essere fiamma» (p. 100). Del resto, ci sono svariati modi di cadere. Si cade in piedi, dal letto, di testa. Si cade bene, si cade male. Si cade piano e si cade forte: come l’accento su una parola, come le note nella partitura, come le gradazioni dei movimenti nel ballo. E si cade ammalati, come si cade in amore, talvolta facendosi male.
Ho letto Come d’aria all’indomani di una storta presa sul ciglio di un marciapiede, a due passi da casa; una storta apparentemente banale ma che aveva provocato una frattura al piede sinistro ed un lungo periodo di riposo forzato, con divieto assoluto di carico. E allora, come molte altre volte nella vita, ho visto il mio corpo arrendersi alla stanchezza ed impormi, mio malgrado, di cominciare a guardare il mondo, per davvero, da una prospettiva diversa, e non più strettamente fisica. Ho scoperto, così, che dal basso si possono vedere molte cose, minuscoli granelli sottili o grandi sassi, che invece sfuggono agli occhi quando si cammina dritti sulla propria strada e si è troppo presi dai propri pensieri, per riuscire a concentrarsi su ciò che c’è intorno e al di sotto dei nostri piedi. E così ho scoperto limiti, limiti infiniti, talvolta insormontabili. Limiti di un corpo che si dimena, si arrabbia e vacilla, rischiando di cadere a terra rovinosamente, ancora e ancora, che con pervicacia si ostina a non appoggiare a terra quell’arto rotto, ma che a stare in equilibrio su quello rimasto sano proprio non ce la fa. Limiti di una città che pone ostacoli, crea continui inciampi e si fa beffa, una volta di più, di quel corpo che cade, e si rende spesso invisa, ostile e inospitale e si rivela in tutta la sua odiosa inaccessibilità – architettonica, stradale, burocratica, umana – a qualunque tipo di impedimento fisico, visibile o invisibile che sia.
È stato proprio in quel periodo di coatta e rabbiosa immobilità, dicevo, che ho scelto di leggere Come d’aria, entrato nella dozzina dello Strega qualche settimana prima di quel banale incidente e soltanto un paio di giorni prima della morte di Ada D’Adamo, avvenuta il primo aprile 2023, all’età di cinquantacinque anni, nella sua casa romana. Da tempo ormai, quel libro con la copertina di colore verde faceva capolino nella mia libreria nuova ma già stracolma e impolverata, dove centinaia di altri libri ancora aspettano di essere scelti. Ho voluto iniziare da lì perché, lo confesso, attirata dall’immagine, così magnetica, disegnata su quello sfondo verde; un’immagine magica, dotata – io credo – del potere di incantare e attrarre a sé chiunque la osservi. Soltanto dopo, ad uno sguardo più attento, ho avuto la conferma che quella illustrazione aveva una genesi speciale e una preziosa eredità da custodire. Sospensione è il titolo: ritrae due figure femminili, l’una vestita di rosso, con il volto inclinato in avanti e appoggiato su quello dell’altra, nuda e di spalle, strette in un abbraccio che è una fusione di corpi, di amore e di dolore, e porta la firma di Alfredo Favi. Lo stesso «Alfredo, spalle larghe, mani di roccia» che, con epiteti che lo fanno sembrare un eroe omerico, compare nella dedica. Lo stesso Alfredo menzionato più volte nel libro: il marito di Ada, il papà di Daria. Proprio lui, dunque, Alfredo, la terza punta che compone il triangolo d’amore di cui parla l’autrice: «Io, lui e tu nel mezzo, al centro esatto del nostro amore. Un amore d’aria». È lui, Alfredo, il compagno di vita con cui Ada ha coniato un acronimo a partire dal suo stesso nome: «A(di)A», che sta per “Ada di Alfredo” e, al rovescio, “Alfredo di Ada”; l’unica persona in grado (e forse in diritto), più e meglio di chiunque altro, di trasferire sulla tela, in una illustrazione così poetica realistica e struggente, quella che – a mio parere – è la pagina più commovente di tutto il testo:
In piscina, senza peso, lentamente il tuo corpo perde la sua rigidità. A pelo d’acqua, butti indietro la testa e ti liberi della cuffia. Ti piace sentire il fresco nel collo, bagnarti tutti i capelli. I nostri corpi finalmente diventano uno. Ti stringo in un abbraccio che ti avvolge totalmente. Un abbraccio sferico. Non c’è più lo schienale della sedia che mi impedisce di toccare la tua colonna vertebrale, e la posizione verticale mi permette di aderire a te completamente, di sentire le tue gambe, dai piedi alle anche e poi il bacino, lo stomaco, lo sterno, su fino al viso. Posso darti mille baci bagnati. Di te ci sono finalmente un sopra e un sotto, un davanti e un dietro, simultaneamente. In piscina troviamo refrigerio, tutto si alleggerisce, l’assenza di peso ci rende euforiche. (p. 80)
Con una scrittura coraggiosa e priva di orpelli, ricercata ma onesta e mai vittimistica, talvolta dura e tagliente, talaltra fluida e delicata, D’Adamo ci consegna un libro che è una danza sull’orlo dell’abisso e sull’orlo di questo abisso è capace di far luce sul senso pieno e autentico della bellezza:
[…] mi domandavo se fosse giusto che gli altri si avvicinassero a te solo perché eri bella. Ma poi in quel “solo” ho trovato il senso più nobile e profondo della parola bellezza. Ho pensato che ciascuno di noi riceve almeno un dono dalla vita e che, nella sfiga generale, tanto vale approfittarne. Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te. (p. 47)
Ed è continuando a danzare sull’orlo dell’abisso che la scrittrice abruzzese racconta di tutte le brutture e difficoltà con cui una famiglia con un bambino disabile quotidianamente si scontra: dalle incomprensibili, e a volte quasi insormontabili, barriere erette dalla macchina burocratica alle falle di un sistema scolastico spesso impreparato ad attuare effettive ed efficaci strategie di inclusione; dall’indifferente brutalità di alcuni medici alla malagrazia di certi infermieri e agli occhi bassi di genitori che bisbigliano istruzioni e consigli agli orecchi dei loro bambini: malcelate vie di fuga dinanzi ad una realtà altra, che non conoscono e non comprendono e perciò fa paura, per l’impotenza del dire e dell’agire. Epperò si può imparare: lo insegna candidamente Viola, cinque anni, in dialogo al mare con il papà di Daria: «Non vede? No. Ma parla? No. Cammina? No. Ma allora è magica!».
Leggere il libro di Ada D’Adamo significa attraversare il bosco e fare un viaggio nel dolore. E dunque chiedersi: quante forme ha il dolore? Quante facce, e quanti sguardi? E come ti e ci trasforma il dolore? Il dolore – è vero – abbruttisce, annulla, maschera, incattivisce. Il dolore si moltiplica, rinnova le piaghe nella condivisione: la storia di Ada e Daria, in fondo, è anche la storia di molte, moltissime famiglie. Famiglie in cui il dolore ha origine, come per Ada D’Adamo, dalla consapevolezza di aver dato al mondo una «meravigliosa figlia imperfetta». Questo è il dolore di molte madri e di molti padri:
Quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo, prendi l’ascensore perché lui non può fare le scale, guidi la macchina perché lui non può salire sull’autobus. Diventi le sue mani e i suoi occhi, le sue gambe e la sua bocca. Ti sostituisci al suo cervello. E a poco a poco, per gli altri, finisci con l’essere un po’ disabile pure tu: un disabile per procura. (p. 15)
E tuttavia attraversare il bosco può e deve essere salvifico. «È necessario raccontare il dolore per sottrarsi al suo dominio», è il monito di Rita Charon posto ad esergo del Prologo: quasi il fil rouge di ciò che Ada D’Adamo si appresta a narrare nel corso del suo lungo racconto. Nel febbraio 2008 inviò al giornalista Corrado Augias per le pagine di Repubblica una lettera di sfogo, un grido di dolore esistenziale lanciato in merito alla Legge 194 e al diritto all’aborto terapeutico, ammettendo che ella stessa avrebbe interrotto la gravidanza, se fosse stata a conoscenza della reale condizione della creatura che avrebbe dato alla luce:
Gentile Augias,
un “bravissimo” medico non è stato in grado di leggere da una ecografia che mia figlia sarebbe nata con una grave malformazione cerebrale. Oggi la mia bimba, poco più di due anni, è persona pluridisabile, invalida al cento per cento. Frequentando i reparti di neuropsichiatria infantile e i centri di riabilitazione incontro quotidianamente decine di bambini nati prematuri. […] In questi anni ho conosciuto famiglie sbriciolate, unioni distrutte, donne sprofondate nella depressione. Non tutti hanno la forza fisica, gli strumenti psicologici, i mezzi economici, la cultura che ci vuole per combattere contro la burocrazia implacabile, contro la crudeltà di certi medici e l’inciviltà imperante, la solitudine e la stanchezza e, infine, contro se stessi e la propria inadeguatezza. […] L’aborto è una scelta dolorosa per chi la compie, ma è una scelta e va garantita. (p. 38)
Una scrittura di denuncia, che affronta urgenti e imprescindibili questioni etiche e politiche, è quella di Ada D’Adamo: una scrittura che regala a chi legge riflessioni intense e profonde sulla malattia, sulla morte, sulla vita e, ancora, sul corpo femminile, sulla maternità e sulle difficoltà, talora tragiche, che l’essere madre comporta; una scrittura che si fa lievito, si nutre e si sostanzia di ricordi musicali e cinematografici e di molte altre scritture, richiamate esplicitamente nelle trame del testo: Franz Kafka, Severino Cesari, Valeria Parrella, John Donne, William Butler Yeats, Joan Didion, per citarne alcuni insieme, naturalmente, ad Annie Ernaux con L’evento, uno di quei «libri che hanno il potere di riconnetterti con esperienze della vita che giacciono sepolte da qualche parte, sotto strati di silenzio e dolore» (p. 69). Una scrittura, insomma, capace di dare voce anche a chi voce non ha.
Leggo le pagine di Ada D’Adamo proprio nelle stesse ore in cui avviene l’inevitabile e fatale conclusione, quella che tutti temiamo e che ella stessa paventa a più riprese e ormai presagisce come sempre più vicina. E mentre scorro quelle pagine, mi scontro ancora una volta con il mio corpo, i suoi scherzi beffardi, i suoi cedimenti, le sue rovinose cadute. Anche i capricci della sorte hanno un bel dire, penso tra me furiosa. E forse proprio per questa ragione era scritto nelle stelle che nei miei studi e nelle mie ricerche anche io, come Ada, mi sarei occupata e concentrata sul corpo, sulle sue forme, sul suo linguaggio, sui suoi colori. Forse perché, in questo modo, posso immergermi fino in fondo, posso capire, posso empatizzare. Epperò la forza di Ada, la limpidezza delle sue parole, che non fanno sconti e mettono tutto lì, sul foglio, nero su bianco; la storia struggente di Ada e di Daria, creatura imperfetta e amatissima; e la storia del corpo di Daria, la figlia, e quella del corpo di Ada, la madre, sono giunte tra le mie mani, sotto i miei occhi, dentro il mio cuore, e non a caso, in un momento per me difficilissimo, come un monito e come un faro, come uno schiaffo e insieme come una carezza. E hanno lasciato un segno, un solco profondo. E mi portano a riflettere, a pormi domande, a ricomporre il puzzle delle mie ferite e delle mie cicatrici, accumulate negli anni, e su quest’ultima banale ma rovinosa caduta, sulle cause e sulle conseguenze, sull’obbligo di restare ferma, a guardare le cose da un’altezza ed una prospettiva diverse. Dal basso. Una volta, ad una presentazione del mio albo illustrato (Un vuoto nella pancia. Lettera a una maestra, Bari, Progedit, 2018), Alessandro, tredici anni, mi disse: “Ho fatto pace con la mia cicatrice, la guardo, non ho più paura: ora siamo amici”; parole che risuonarono nella sala come una vera e spiazzante lezione di vita. Per me e per tutti i presenti.
E mi pare vero, del resto, che – come scrive Karen Blixen – «tutti i dolori sono sopportabili se li si fa entrare in una storia, o se si può raccontare una storia su di essi». Una storia che – ironia della sorte, ancora una volta!- vede Ada D’Adamo imperniare, da danzatrice, tutta la sua vita sulla danza; una storia che diventa per lei una testimonianza di vita in nuove forme:
Adesso non sogno più di salti e giri e spaccate. Quando mi sdraio a terra chiudo gli occhi e, nel buio, cerco il corpo col sentire. Ascolto lo scricchiolio dell’articolazione, mando calore al muscolo, visualizzo la vertebra che tocca il pavimento e quella che resta staccata da terra. Provo a riempire d’aria quello spazio, a respirarci dentro, consapevole dei miei pochi, poveri mezzi. Vedo gli altri danzare e sento di non poterlo più fare. Ho conosciuto l’energia, la potenza, la forza di un corpo che si muove e obbedisce, ma quella forma di essere non sono più in grado di metterla in atto. Per questo ammiro artisti come Olivier Dubois. Vorrei avere altrettanta consapevolezza che tutto ciò che ho vissuto, imparato, sperimentato, e che oggi credo perduto – neuroni e muscoli e ossa danneggiati dai farmaci –, sopravviva ancora, da qualche parte. (pp. 102-103)
Una risposta e un conforto giungono dalle poetiche parole di Chandra Candiani, tratte dalla raccolta Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano (Torino, Einaudi, 2021) e menzionate dall’autrice abruzzese alla fine del suo romanzo:
Come amare sapendo che la separazione ci aspetta? Come essere pienamente e saper sparire. Non lo so. Sono le leggi della vita, le sue imperscrutabili coreografie, danze per non vedenti, un soffio leggero ci sfiora la faccia e le mani e pur non vedendo sappiamo: la danza continua. (p.127)
D’altronde, tra le righe Ada stessa soggiunge: «Spesso la malattia separa, allontana, distrugge. Qualche volta invece genera, allaccia, moltiplica l’amore» (p. 59). E così, nel solco dell’insegnamento degli antichi, è lei stessa, Ada, a farsi viva testimonianza di un destino già tutto scritto nel suo nome come pure nel suo cognome (che peraltro, come un’eco, curiosamente riprende per intero il nome: D’Adamo): «Come il mio nome, che contiene le iniziali dei nostri tre. E tu sei al centro, la consonante che unisce due vocali e fa il nome, l’identità» (p. 115). Ada è Daria, Ada è Alfredo, Ada è Daria e Alfredo insieme; Ada, che ha molto amato, è e resta per sempre parte fusa e ineludibile in e Di chi ella stessa ha Amato.
* Nata ad Ortona (CH) nel 1967, Ada D’Adamo ha vissuto e lavorato a Roma, dove si è diplomata all’Accademia Nazionale di Danza e laureata alla Sapienza in Discipline dello Spettacolo, con una tesi sulla danza in video. Ha dedicato molto tempo all’osservazione del corpo e delle sue declinazioni sulla scena contemporanea, scrivendone in diversi saggi sulla danza e sul teatro. Dal 1992 al 2002 ha collaborato con l’allora Dipartimento di Musica e Spettacolo, svolgendo seminari sul rapporto tra danza e video, sulla danza contemporanea europea, sulle esperienze di avanguardia nella danza del primo Novecento. Dal 2002 al 2004 ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Macerata. Esperta anche di letteratura per l’infanzia, ha prestato la sua collaborazione in qualità di editor presso la casa editrice Gallucci.